Un giorno, un amico di mio padre affermò sorridendo che “l’arte di Martino non è né impressionista né espressionista, bensì impressionante”. Era una domenica di maggio piena di sole, avevo tredici anni, e mi fece ridere questa definizione.
Oggi la rivaluto, ripulendola dalle accezioni più ovvie dell’aggettivo “impressionante”, e portando in primo piano il solo traslato fotografico (analogico) dell’esposizione alla luce di una pellicola. Mio padre - quando disegna, dipinge, incide e stampa - espone alla sua visione del mondo la mente delle persone. Una visione del mondo che non ha mai cessato di oscillare, motu aeterno, tra la delusione per la mancata evoluzione dell’animo umano e il rifugio individuale nella necessità del vivere nascosto e dell’intima evasione.
Da bambino mi incantava per ore, narrandomi alcuni tra gli episodi dell’Iliade e dell’Odissea. C’è molto dei canti omerici nelle opere di mio padre: il determinismo logico che alla vanità fa seguire la discordia; la simulazione della follia come estremo tentativo di evitare sciagure annunciate; l’inesorabilità del dovere non voluto e causato della volontà dei potenti; la vittoria che quasi mai giunge per mano del più forte, magari ucciso per la sua unica e paradossale vulnerabilità, ma solo grazie all’astuzia geniale del più intelligente; il viaggio, sempre foriero di avventure e spesso di perdite, di emozioni e desiderio del ritorno; le distrazioni delle vite che si disperdono tra oblio e allucinazioni; l’amore coniugale che traballa ma non crolla; la stima per i figli, con cui si possono cacciare gli invasori domestici e liberarsi.
Nei quadri che più amo di Martino Gaudiano ritrovo la sua intelligenza e la sua ideologia, distillate nelle diverse rappresentazioni dell’evidenza umana: l’avidità e l’arrivismo di chi s’arrampica e rimane bloccato tra l’inaccessibilità del sole e la vertigine del baratro che si è lasciato dietro; la fredda formalità di chi dirige e diviene sinistro tutt’uno con la poltrona su cui siede; il branco umano, vigliacco e sanguinario con l’uomo e con le bestie, di cui diviene il peggiore esemplare per la gratuità della ferocia; la tediante vanità di chi si limita all’esteriorità dell’esistenza e s’atteggia sprezzante e indifferente verso chi contempla o pensa; il disastro umano e materiale di chi, ambizioso e inetto, si improvvisa…
Ma anche l’elogio della bellezza che l’uomo sa creare ricamando balconcini e bifore, o scolpendo nella pietra la vista del paesaggio collinare coltivato; la libertà del gioco infantile che s’invola sulle teste, nell’aria tenue e vaporosa, con l’elegante fronzolo delle sue code; l’incanto della foresta appena antropizzata da figure che la comprendono e con essa si armonizzano come in un primordiale stato di natura; i pastelli di dio, che colorano l’orizzonte di un inverno della vita dignitoso e malinconico; il potenziale inesauribile di ciò che la mente umana decide di secretare negli scantinati della menzogna o negli attici delle mezze verità; il nodo gordiano del filosofo che sogna e impasta la bellezza della logica con la fantasia del poter Essere; e lo squarcio al velo ottundente dell’autodistruzione umana che s’apre a un altro cielo, unica soluzione alla tragedia dei corpi abbandonati e dei ruderi, resti a memoria di un antico splendore…
Per anni ho provato a comprendere se sulla poetica figurativa di mio padre avessero maggiormente influito il cubismo di Braque e Picasso, la metafisica di De Chirico, l’umanesimo classico di Luca Della Robbia, il genio elegante di Raffaello, alcune rappresentazioni paleocristiane, l’Art Nouveau, e via dicendo – di suggestioni ve ne sono diverse in ciascuna opera… Ma ora mi accorgo che è stato tempo sprecato e che non si rende onore alla sua Opera se, pur non dimenticando l’eterno amore giurato a questi e ad altri campioni dell’Arte di tutti i tempi, non si riconoscesse alla sua poetica artistica l’originalità che le è dovuta.
Un’originalità in cui si possono ritrovare due elementi costitutivi fondamentali: la negazione di quelle forme d’espressione in cui il significante totalizza l’opera, esautorando completamente il suo contenuto; e la consapevolezza che anche l’Arte, come ogni altra manifestazione dell’Essere dell’Uomo, si pone sulla semiretta della storia: non esiste la possibilità di determinare al di fuori della dialettica temporale una modalità artistica completamente diversa da quelle precedenti. Semmai, con i grandi movimenti e le grandi scuole, sono possibili l’emulazione, la competizione, il dialogo, la commistione, la sintesi.
E poi c’è il teatro. In molte delle opere di mio padre c’è il palcoscenico, la luce geometrica dei riflettori e i colori dei faretti, le pose dei corpi, lo studio dei volti e delle espressioni, gli sguardi, i paesaggi non protagonisti delle scenografie decorative e/o al più simboliche.
Sarebbe interessante soffermarsi “monograficamente” su alcune tematiche particolarmente esplorate da mio padre sia nelle opere grafiche sia in quelle pittoriche: la metamorfosi e la trasfigurazione; la figura di Cristo nel tempo; l’altrove catartico del pensiero; la cristallizzazione dell’amore di coppia; l’evoluzione dell’analisi sociale attraverso la critica di singoli individui-simbolo, ecc.
Martino Gaudiano ama l’Arte, e detesta i professionisti dell’arte presunta, senza talento e idee. Si è tenuto fuori dal mercato, scelta che ci permette di non considerare il valore delle sue opere con riferimento al denaro, alla compravendita, al prezzo medio, alle misure. Possiamo disquisire – bene o male – circa la sua produzione artistica, ma in totale libertà da alcun pregiudizio di natura economica. E di questo penso sia il caso di ringraziare l'uomo e l'artista Gaudiano, mosca bianca nell’attuale contesto socio-culturale.
Non era facile per me scrivere su Martino Gaudiano, abbandonando il punto di vista del figlio: temevo che il tutto si sarebbe ridotto a mero esercizio di stile, privo di alcun interesse per me o alcuno. Mi sono limitato ad appuntare, senza pretese o velleitarie ambizioni di sistematicità, suggestioni e ricordi su mio padre, uomo e artista. E, prima d’ogni altra cosa, innamorato dell’Arte dell’Uomo nelle sue diverse epifanie: architettura, pittura, scultura, musica, poesia, teatro...
PS. Non ho ancora compreso il ruolo dei gatti.